Lavanda dei piedi

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AutoreValerio Belli
Periodo(Vicenza circa 1468-1546)
InventarioAP I 3
Autore della schedaDavide Gasparotto

L'opera appartiene ad una coppia di cristalli di rocca incisi.
Consultare anche Inv. AP I 4

I due rari e preziosi cristalli di rocca furono incisi dall’orafo vicentino Valerio Belli, un artista stimato e richiesto dai più illustri committenti del Cinquecento, amico di Michelangelo e Raffaello, celebrato da Vasari nelle sue Vite e oggi purtroppo pressoché dimenticato. Il fatto che le sue incisioni fossero tratte da disegni altrui e non fossero dunque sue creazioni personali, ha fatto sì che egli venisse considerato alla stregua di un semplice imitatore, mentre la sua arte andò negli anni progressivamente svalutandosi, venendo relegata all’ambito artigianale. L’intaglio del cristallo di rocca era invece un’operazione raffinata e difficile eseguita su un materiale estremamente pregiato, duro e fragile allo stesso tempo, che veniva lavorato a rovescio, scavando la superficie con piccoli trapani.

I due pezzi del Museo civico di Vicenza, appartenenti in origine ad un più ampio complesso attualmente smembrato e commissionato a Belli da papa Clemente VII, furono il frutto di un lungo e paziente lavoro, che vide impegnato lo scultore per più di un decennio: sicuramente egli aveva già messo mano all’intera commissione nel 1533 e la concluse nel 1545, quando era già asceso al soglio pontificio papa Paolo III Farnese.

In queste composizioni, capolavori dell’arte dell’intaglio, i personaggi si affollano in primo piano, sullo sfondo di strutture architettoniche classicheggianti, attorno alle figure dei protagonisti: Cristo che si accinge a lavare i piedi a san Pietro, nella prima, mentre nella seconda Cristo che, sotto il peso della croce, si appresta a salire al Calvario, preceduto da alcuni soldati e dai due ladroni, seminudi e con le mani legate dietro la schiena.

L’impaginazione delle composizioni, estremamente mossa e concitata, è vivacizzata dagli effetti di trasparenza e di luce dati dal prezioso materiale.

Descrizione figurativa

Il vicentino Valerio Belli, "principe degli incisori", come recita la lapide posta sulla sua abitazione vicino al cinema "Odeon", in corso Palladio, amico di Michelangelo e Raffaello, ha visto negli anni svalutata la sua arte, perché considerato semplice imitatore, incidendo egli opere su disegni altrui. In realtà si tratta di un artista di primissimo piano, dato che l'incisione su cristallo di rocca come in questo caso era operazione raffinata, trattandosi di materiale prezioso, duro e fragile nel contempo. In questa composizione mossa ed estremamente concitata i personaggi si affollano in primo piano sullo sfondo di strutture architettoniche classiccheggianti, attorno alle figure dei protagonisti: Cristo che lava i piedi a San Pietro.

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Iscrizioni

sulle due tabelle appese alla parete SI NON L / AVERO TE / ·NON H· // ABEBIS / PARTEM / MECVM (Giovanni, 13, 8)

Provenienza

acquisto del Museo da Antonio Mongiardini, Firenze 1882 (MCVi, Museo, Registri di protocollo, reg. 1, prot. n. 15 del 1881, giu. 5, in cui l’avvocato Domenico Rambadi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze “partecipa come certo cavalier Antonio Mongiardini, capitano nel regio esercito presso la divisione compartimentale di Firenze possieda due bellissimi quadretti incisi su cristallo di rocca da Valerio Belli vicentino e sia disposto a venderli; e perciò si fa premura di offrirli a questo Museo prima che a nessun altro […]”; prot. n. 25 del 1881, nov. 12, in cui la Commissione alle cose patrie “informa la Giunta municipale che le furono offerti in vendita due cristalli di monte intagliati da Valerio Belli e rappresentanti due storie della Passione di Cristo del cavalier Mongiardini maggiore dell’esercito di stanza a Firenze che ne domanda lire 10 mille. La Commissione si rivolge alla Giunta municipale perché decida in proposito”; MCVi, Museo, Acquisti, b. 1, fasc. “Acquisto cristalli di Valerio Belli”, lettera del 1882, mar. 3, in cui il maggiore Antonio Mongiardini scrive a Bernardo Morsolin, membro della Commissione alle cose patrie: “ho ricevuto questa mattina qui in Roma la pregiatissima sua lettera per mezzo dell'avvocato Rembadi, mio suocero. In detta lettera la signoria vostra mi dichiara che la Commissione di Vicenza avrebbe in questo momento disponibili sole lire 5000 per l’acquisto dei miei quadretti di cristallo di rocca, e che per il resto del prezzo, indichi io l’epoca delle rate da pagarsi ancora […]. Per non essere ostinato e per avere il piacere di fare acquistare alla città di Vicenza quei due capolavori del suo concittadino io ridurrò il prezzo a lire 9000”; lettera del 1882, apr. 14, in cui Niccolò Antinori scrive all'avvocato Domenico Rambadi: “le faccio sapere che fino da ieri fu da me il signor Angiolo Lombardi incaricato dal signor maggiore Mongiardini di mostrarmi i due cimelii in cristallo di rocca attribuiti a Valerio vicentino. Era anche presente l’amico mio senatore Morelli, come si desiderava. Essi ci apparvero subito come due lavori d’arte pregevolissimi ed indubitativamente della bella epoca in cui quell’artista operava. Ma non arrendendoci a questa prima buona impressione ricevuta, e sapendo come nella sala detta delle Gemme nella nostra Galleria degli Uffizi si trovi una bellissima cassetta formata da 24 formelle di cristallo di rocca in cui sono incavate storie della vita di Gesù Cristo, autenticate dalla firma dell'autore ivi incisa, ci siamo recati a vederle e siamo tutti e due venuti nell'assoluta convinzione che le due tavolette possedute dal signor maggiore Mongiardini siano certamente opera di Valerio vicentino”; lettera di Niccolò Antinori del 1882, apr. 30: “ed ecco quello che dopo parere assunto sarei venuto a potere concretare, che avendone il proprietario chieste lire 9000 si potesse con tutta convenienza (avuto riguardo alle avarie che i due cristalli hanno subito) chiederne lire 7000 dando il valore a l’un pezzo di lire 4000 ed all'altro di lire 3000. E si è d’opinione che tenendo il fermo sopra un tal prezzo debba assolutamente il venditore finire per cedere”; lettera del 1882, mag. 6, in cui Mariano Fogazzaro, presidente della Commissione alle cose patrie, scrive al signor Mongiardini: “premetto che la Commissione si compone di cinque individui oltre il conservatore, che di questi soltanto tre, il professor Morsolin, il cavaliere Busato e il sottoscritto, avevano veduti i due cimelii, che pertanto gli altri due colleghi dovettero essere da questi informati dello stato di conservazione dei suddetti cimelii (cosa della quale né l’Antinori né il Morelli si sono occupati nel giudizio riferitoci) e perciò fatti avvertiti della forte incrinatura che ne sfregia uno dei due, prodotta da una caduta, com’ella ebbe a dirci quando la rilevai nell’osservarlo qui in Vicenza la scorsa estate. In considerazione adunque di tale difetto, evidentissimo a prima vista, che senza dubbio scema notevolmente il valore commerciale di codesto pezzo, in considerazione che per qualunque anche piccola somma superiore alle 5000 lire la Commissione deve ricorrere al credito senza sapere oggi come e quando giungerà a sdebitarsi, dopo molto discutere s’è condotta a proporle il prezzo di lire 7000, limite estremo che le sia dato raggiungere uscendo a proprio rischio dai termini del suo potere”; segue lettera del 1882, mag. 12, in cui Antonio Mongiardini scrive a Mariano Fogazzaro: “sebbene l’offerta fattami dalla signoria vostra, per conto di cotesta rispettabile Commissione di cose d’arte, di lire italiane settemila, per i due miei quadretti di cristallo di rocca incisi dal celebre Valerio, sia alquanto inferiore a quella somma che io desideravo realizzare, somma che già avevo di molto ridotta in vista che ad altri non volevo cederli se non a cotesta città, perché mi stava sommamente a cuore che non andassero fuori d’Italia, tuttavia sul riflesso che ottengo di appagare uno dei miei desiderii più graditi, così io mi decido a darle il benestare ed andando a Vicenza quei due quadretti, per settemila lire italiane”; lettera del 1882, giu. 14, in cui il sindaco di Vicenza scrive alla Commissione alle cose patrie: “la Giunta municipale, prendendo atto con la più viva soddisfazione di quanto cotesta onorevole Commissione la informa […], riguardo all’acquisto dei due preziosi cimelii di Valerio Belli per lire 7000, ha deliberato di autorizzare l’Accademia Olimpica a corrisponderle le lire 5000 già predisposte a favore del Museo di provenienza della fondazione Formenton e d’interessarla ad anticiparle altresì lire 2000, dato che nel patrimonio della fondazione stessa fossero disponibili”; segue dichiarazione di Antonio Mongiardini del 1882, giu. 17: “io sottoscritto dichiaro di avere ricevuto dalla Commissione delle cose patrie di Vicenza, rappresentata dagli illustrissimi signori Fogazzaro cavaliere Mariano presidente, professor Busato cavaliere Giovanni, professore cavaliere Bernardo Morsolin, la somma di lire italiane seimila e cinquecento, prezzo di due cristalli di rocca incisi dal valente artista Valerio Belli di Vicenza, da me venduti a questo civico Museo. Dichiaro inoltre che il minor prezzo di lire cinquecento da me riscosso, del fissato di lire settemila, è stato così convenuto per un piccolo guasto accaduto nel viaggio ad uno dei suddetti due cristalli”; lettera del 1882, lug. 24, in cui sindaco di Vicenza scrive alla Commissione alle cose patrie: “la Giunta municipale […] si pregia di prender atto, col più vivo compiacimento, di ciò che si è compiuto da codesta onorevole Commissione riguardo all’acquisto dei due preziosi cimelii di Valerio Belli, fattosi da esso a mezzo dei fondi devoluti al Museo dalla fondazione Formenton”)

Inventari

[1954]: Inv. E II 354. Valerio Belli. Cristalli, La lavanda dei piedi; 1997: 122. Valerio Belli (Vicenza, circa 1468-1546). Lavanda dei piedi. Inv. Gl. 1. Mm 61x66 (base superiore) x87 (base inferiore); mm 4 (spessore). Cristallo di rocca inciso; una sbreccatura sul margine destro in basso; cornice in metallo dorato.

Descrizione tecnica

L'opera appartiene ad una coppia di cristalli di rocca incisi.
Consultare anche Inv. AP I 4

Nel primo cristallo, la scena si svolge di fronte ad una sobria facciata classicheggiante sulla quale si apre un grande portale, con figure di Vittorie nei pennacchi, e con timpano ornato da due figure acroteriali distese; nell’intradosso è appesa una lucerna. All’estremità destra della composizione è Pietro, seduto su uno sgabello, mentre di fronte a lui è inginocchiato Cristo con il catino dell’acqua; tra i due, in secondo piano e rappresentato frontalmente, è probabilmente Giovanni, con lo sguardo rivolto verso l’esterno della composizione; tutt'intorno, in diverse attitudini, gli altri Apostoli, vestiti con ampi panneggi all’antica.

Nel secondo l’episodio della Passione è ambientato di fronte ad una parete in opera rustica nella quale si apre una grande porta, raffigurata sulla sinistra, da cui si immagina uscire il corteo. La composizione si sviluppa in modo simile ad un fregio classico, con tutte le figure assiepate sul primo piano: al centro è rappresentato Cristo con la croce, preceduto da alcuni soldati in lorica e dai due ladroni seminudi con le mani legate dietro la schiena; dietro, nella metà sinistra, altri soldati seguiti dal gruppo delle Marie; in secondo piano, più in alto, tre cavalieri che escono dalla porta di Gerusalemme, evocata attraverso alcuni edifici all’antica raffigurati sullo sfondo, al di là delle mura.

I due preziosi cimeli vennero acquistati dall’Amministrazione comunale di Vicenza nel 1882 dal maggiore Antonio Mongiardini, per interessamento di Bernardo Morsolin, membro della Commissione alle cose patrie, ben noto conoscitore ed erudito vicentino nonché autore di alcuni dei primi studi scientifici su Valerio Belli. Una richiesta iniziale di 9000 lire venne successivamente ridotta a 7000 lire, dopo che a Firenze fu condotto un esame diretto dei pezzi da parte del marchese Niccolò Antinori e del senatore Giovanni Morelli, che vi riconobbero “due lavori d’arte pregevolissimi ed indubitativamente della bella epoca in cui quell’artista operava”, ma che riscontrarono anche la brutta frattura nel cristallo con l’Andataal Calvario, tuttora ben visibile. Alla fine la trattativa si concluse, il 17 giugno del 1882, con l’acquisto delle due lastre per la cifra di 6500 lire, a motivo di un altro piccolo danneggiamento subito da una delle due opere durante il trasporto.

Sul principio del secolo scorso Jean Baptiste Louis Séroux D’Agincourt pubblicò nella sua Storia dell’arte una tavola con una serie di incisioni che raffiguravano nove “impronte in oro e in piombo” con scene della Passione di Cristo, appartenenti alla collezione del principe Stanislao Poniatowski (1754-1833), derivanti da cristalli di Valerio Belli (Séroux D’Agincourt, III, 1826, pp. 301-305; V, 1828, pp. 406-407, ill. XLIII), erroneamente ritenute dal conoscitore francese riproduzioni delle lastre che ornano la celebre Cassetta Medici del Museo degli Argenti di Firenze (che vennero invece di lì a poco riprodotte nella celebre Storia della scultura del conte Leopoldo Cicognara).

Le composizioni illustrate da Séroux sembrano in effetti costituire, come già avevano intuito Giangiorgio Zorzi (1920) ed Ernst Bange (1922, n. 762), un insieme coerente dal punto di vista tipologico e iconografico, a nostro avviso un complesso da altare realizzato dall’artista vicentino negli anni trenta e nei primi quaranta del cinquecento, in un lungo lasso di tempo. Già nel dicembre del 1533 Valerio, in una lettera al duca di Mantova Federico Gonzaga, gli scriveva che stava eseguendo per il papa (allora ancora il mediceo Clemente VII) “uno fornimento de altare cioè una croce et doi candelieri et una pace tuti de cristalo” (Barausse, 2000, p. 416, doc. n. 65). È assai plausibile ipotizzare che questo impegnativo lavoro si sia protratto nel tempo e che la commissione sia passata al successore del Medici, Paolo III Farnese, e che il servito d’altare venisse completato solo diversi anni più tardi dal nostro artista, allora già molto anziano: potrebbe trattarsi di quella “opera grande che hora è fornita”, di cui fa menzione Francesco Maria Malchiavello in una sua lettera del 21 settembre 1542 indirizzata da Vicenza al ben noto giurista e collezionista padovano Marco Mantova Benavides (Barausse, 2000, p. 431, doc. n. 100). Del resto Valerio ricevette il 28 novembre del 1545 quarantacinque scudi d’oro come prima tranche d’un totale di 1200 che doveva avere dal papa per l’esecuzione d’una croce, due candelieri e due paci di cristallo (Barausse, 2000, p. 434, doc. n. 110); e il 29 luglio del 1546, all’indomani della morte dell’intagliatore, l’amico Girolamo Gualdo, suo commissario testamentario, nominò il figlio di Valerio, Elio, come procuratore per riscuotere i 1155 scudi che ancora mancavano all’appello (Barausse, 2000, p. 438, doc. n. 121).

In un momento imprecisato la croce e i due candelieri vennero disfatti e probabilmente fusi, mentre alcuni dei cristalli originali, privati ormai dell’originaria montatura, entrarono nei canali del collezionismo privato. Alcuni di essi sono a nostro avviso oggi rintracciabili in diversi musei del mondo: ai due più noti di Vicenza, che qui commentiamo, si possono aggiungere i due presso il Taft Museum di Cincinnati (Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, p. 313, cat. 7.3, 7.6), raffiguranti Cristo al Limbo e Cristo innanzi a Pilato, quello con l’Ingressodi Cristo in Gerusalemme del Metropolitan Museum di New York (Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, p. 312, catn. 7.1) ed infine il pezzo con l’EcceHomo oggi presso il Cabinet des Médailles di Parigi (Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, p. 313, cat. 7.4).

Sono tutte lastre dall’insolita forma trapezoidale: se con esse consideriamo anche una serie di placchette, in bronzo ed in piombo, riproducenti le medesime scene illustrate nella tavola di Séroux (Lewis, 2000, pp. 126-128; Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, pp. 327-331, cat. 53-61), siamo in grado di figurarci un insieme che poteva benissimo costituire l'ornamento di una croce e due candelieri d’altare, in maniera simile alle lastre che ornano il piede della croce, sempre attribuibile a Valerio, oggi conservata al Victoria and Albert Museum (Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, pp. 305-306, cat. 3): i cristalli di modulo maggiore avrebbero potuto decorare il piede della croce (Cristo innanzi a Pilato; Ecce Homo; Andata al Calvario) mentre i sei di modulo minore sarebbero stati incastonati sui piedi dei due candelieri (Ingresso di Cristo in Gerusalemme; Lavanda dei piedi; Presa di Cristo nell’orto; Deposizione nel sepolcro; Cristo al Limbo; Incredulità di San Tommaso), proponendo così un ciclo coerente dedicato alla Passione di Cristo.

Lo stile delle figurazioni è un ulteriore elemento in favore di quest’ipotesi: esso è alquanto omogeneo e sembra rappresentare un maturo sviluppo del linguaggio che Valerio aveva messo a punto nelle opere precedenti, in particolare nella Croce del Museo Sacro Vaticano (1524 circa) e soprattutto nella Cassetta Medici del Museo degli Argenti di Firenze (1530-32). Le architetture ad esempio, del tutto assenti nei cristalli vaticani e assai semplificate nella Cassetta, sono qui molto più elaborate, per esempio nei cristalli di New York, Parigi e Vicenza: nell’Ecce Homo del Cabinet des Médailles pare di cogliere nell’articolazione dell’edificio di fondo un’eco della famosa incisione di Baccio Bandinelli con il Martirio di San Lorenzo, mentre un potente bugnato rustico fa per la prima volta la sua comparsa negli edifici dell’Andata al Calvario di Vicenza e del Cristo al Limbo di Cincinnati, probabili riflessi d’un aggiornamento di Valerio sul linguaggio di Giulio Romano, di Jacopo Sansovino e del Sanmicheli. Nella lastra di Cincinnati i poderosi nudi dei progenitori, la figura di Cristo al centro della composizione, i diavoli volanti e il gruppo compatto delle anime gesticolanti oltre la porta richiamano l’analoga scena sul candelabro bronzeo di Andrea Riccio nella Basilica del Santo di Padova, completato entro il 1516 (Planiscig, 1927, p. 293, ill. 338; Collareta, 2000, p. 120). Nell’Andata al Calvario di Vicenza le figure dei prigionieri con le mani legate dietro la schiena e il soldato con l’armatura “squamata” sembrano riflessi dello studio di alcuni motivi presenti sui rilievi della Colonna Traiana, di cui Valerio possedeva alcuni importanti disegni, ricordati nel suo testamento (Barausse, 2000, pp. 437-438, doc. n. 119), come è già stato opportunamente osservato da Charles Davis (1989, p. 268). Possiamo aggiungere che anche la composizione con Cristo innanzi a Pilato ha la struttura tipica di certi rilievi storici romani, in particolare di quelli con scene di sottomissione dei prigionieri barbari alla presenza dell’imperatore, come ad esempio in uno dei rilievi aureliani del Palazzo degli imperatori (Bober-Rubinstein, 1986, p. 195, n. 162).

I cristalli vicentini segnano quindi, insieme agli altri della medesima serie, un punto d’arrivo nella maturazione dello stile del Belli, uno stile che si fonda essenzialmente sull’autorità del rilievo storico romano da una parte e dall’altra sulla sua reinvenzione nell’ambito della bottega di Raffaello negli anni dieci del cinquecento (specie nelle Logge e nelle bordure degli arazzi destinati alla Cappella Sistina): ma questo modello viene sottoposto dall’artista vicentino ad una serie di sottili mutamenti, che si muovono dalla sintassi composta e aulica dei cristalli vaticani, ancora colma di echi raffaelleschi, per cedere il passo nella Cassetta ad un linguaggio elegantissimo, essenziale e quasi astratto, dal sapore schiettamente “neoattico”, fondato sul gusto di impercettibili variazioni sopra uno schema precostituito, per arrivare infine nei pezzi vicentini e nei loro probabili compagni ad una “maniera” dove prevale un’impaginazione più mossa e concitata delle scene sacre, una più variata articolazione compositiva e un gusto più esibito per la citazione erudita. Insomma, un lessico assolutamente in linea con quella che Vasari, pochi anni dopo, avrebbe chiamato, nelle pagine delle sue Vite, la “bella maniera”.

Le placchette, in bronzo o in piombo, presentano talvolta delle significative varianti rispetto ai cristalli conservati, confermandoci nella supposizione che talvolta non sono i piccoli rilievi metallici a derivare da calchi delle lastre già incise, ma che invece essi costituiscono una sorta di “prove”, realizzate prima dei cristalli di rocca, che potevano esser utilizzate dall’artista per studiare l’effetto delle sue composizioni, come dimostrazioni per il committente o ancora per divulgare presso un più vasto pubblico le sue invenzioni più riuscite, altrimenti destinate all’ammirazione di una schiera selezionatissima di mecenati ed amatori: del resto ancora nel 1563 l’architetto mantovano Giovanni Battista Bertani ricordava al duca di Mantova che le figure d’un certo dipinto erano “cavate da quelle di Valerio Vicentino, che si vendono in tutte le piazze d’Italia” (Barausse, 2000, p. 446, doc. n. 143).

Bibliografia

Zorzi, 1920, pp. 189-190, 191, ill. 7; Kris, 1929, I, pp. 52, 162-163, nn. 182-183, II, ill. 44; Ballarin An., 1973, pp. 142-144; Barbieri, 1995, p. 75; Gasparotto, in Placchette, bronzetti…, 1997, pp. 104-107, cat. 122, 123; Collareta-Gasparotto, 1999, pp. 104-105, 110; Gasparotto, in Valerio Belli…, 2000, p. 313, cat. 7.2, 7.5; Villa, in Palazzo Chiericati…, 2002, pp. 15, 21.

Esposizioni

Vicenza 1997, pp. 104-107, cat. 122-123; Caltanissetta, 2000, pp. 104-107, cat. 122-123; Vicenza, 2000, p. 313, cat. 7.2, 7.5.

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