Madonna con il Bambino

Ricerca opere

AutoreScultore lombardo-veneto
Periodo(ottavo – nono decennio del secolo XV)
InventarioS 119
Autore della schedaMatteo Ceriana
L'opera appartiene ad un gruppo di tre statue.

Consultare anche Inv. S 120 - S 121

Il gruppo scultoreo, proveniente dal portale dell’oratorio di Santa Maria e San Cristoforo nell’ospedale di San Marcello a Vicenza, fece il suo ingresso in Museo in due diversi momenti: la testa di san Vincenzo, separata dal busto, fu portata a Palazzo Chiericati già nel 1879, mentre le tre statue vi arrivarono solo più tardi, nel 1952.

Le sculture hanno subito nel corso degli anni notevoli danneggiamenti: mancano alcune parti, come il piede destro di san Cristoforo, la mano sinistra della Vergine e la testa del Bambino, si notano inoltre, in molte zone, rotture e sbeccature, e la superficie è corrosa in più punti. Sono andate poi perdute le aureole che le figure portavano sul capo e l’asta che san Vincenzo stringeva con la mano destra. Sono ancora visibili, tuttavia, nonostante il precario stato di conservazione del gruppo, alcune tracce di colore, che danno testimonianza dell’originaria policromia delle sculture.

Le tre statue, che differiscono leggermente tra loro per dimensioni, mostrano alcune evidenti divergenze stilistiche. Alcune parti, come le movenze del corpo e le pieghe del panneggio della Madonna (il suo volto, fortemente danneggiato, è difficilmente leggibile) o il viso scorciato di san Cristoforo sono eseguite con particolare cura, altre invece presentano delle debolezze, come la sproporzione tra i piedi troppo grandi e le gambe troppo sottili di san Cristoforo e la staticità del corpo di san Vincenzo serrato entro la veste.

Risulta particolarmente difficoltoso dare un nome all’autore delle tre sculture, realizzate con ogni probabilità da un artista attivo in area lombardo-veneta tra l’ottavo e il nono decennio del Quattrocento.

Provenienza

Vicenza, portale dell’oratorio di Santa Maria e San Cristoforo, fino al 1952; in Museo dal 1952 (MCVi, Museo, Registri di protocollo, reg. 1, prot. n. 36 del 1879, ago. 11, in cui Angelo Alverà, direttore del Monte di Pietà, “manda a questa Commissione la testa della statua di San Vincenzo, esistente sopra la facciata della chiesa del detto santo patrono, acciò sia conservata in questo Museo, come eseguita dal valente scultore Antonio Albanese”; MCVi, Museo, Verbali, reg. 4, verbale del 1952, lug. 9, che riporta: “II. Statue San Marcello. Si dà lettura di una lettera, a firma del sindaco, in cui si informa come la Giunta municipale abbia deciso di fare eseguire la copia delle tre statue di San Marcello dallo scultore Neri Pozza, che resta quindi autorizzato a prelevare gli originali quando voglia, d’accordo in ciò con l’Ufficio tecnico comunale. Alla lettera del sindaco si allega copia di una lettera inviata al soprintendente Fausto Franco, nella quale si dà l’annuncio della deliberazione presa, e si sottolinea l’opportunità che venga eseguita opera di pulitura e di restauro degli originali stessi”).

Restauri

1953, Neri Pozza; 1994, Paolo Bacchin

Inventari

1902: c. 129, 115. Pietra tenera. Testa di san Vincenzo. Maggiore del vero. Frammento. Dalla chiesa di San Vincenzo; apparteneva ad una delle statue che stanno sul frontone della chiesa; opera del vicentino Albanese; [1954]: E II 53, E II 54, E II 55. Gruppo scultoreo di tre statue: Madonna col Bambino tra san Vincenzo e san Cristoforo in pietra. Opera di ignoto del “400” di formazione lombarda? Il materiale viene interpretato come pietra locale ma anche come pietra di cave toscane, dovevano ornare l’altar maggiore della chiesetta di Santa Maria e San Cristoforo. Furono tolte nella fine del ‘500, perché il Castellini (morto 1630) le descrive come già collocate sull’architrave della porta; 53. San Vincenzo. Cm 167x40; 54. Madonna col Bambino. Cm 174x51; 55. San Cristoforo. Cm 170x53 [a matita Sala di Ercole, Fasolo 1940 192, 193, 194].

Descrizione tecnica

L'opera appartiene ad un gruppo di tre statue.

Consultare anche Inv. S 120 - S 121

 Le tre sculture, provenienti dal portale dell’oratorio di Santa Maria e San Cristoforo nell’ospedale di San Marcello, sono in mediocre stato di conservazione, avendo subito danni già in antico. È attestata una caduta il 24 agosto 1776, quando “tre temporali l’uno dietro l’altro [...] fece cadere anche tre statue di pietra dalla facciata del salone a San Marcello” (Favetta, Fatti successi…, BBVi, ms. 3224, c. 68). Inoltre la testa di San Vincenzo, staccata dal busto, era giunta in Museo già nel 1879, molto prima del complesso scultoreo, che venne trasportato a Palazzo Chiericati solo nel 1952, in occasione del restauro eseguito dallo scultore Neri Pozza (Barbieri, 1962, I) e furono dal medesimo restauratore una prima volta (1953). Prima dell’ulteriore e più recente restauro conservativo (1994), si presentavano danneggiate in più punti e reintegrate più estesamente che non nello stato attuale, dove i risarcimenti sono eseguiti nei punti in cui risultavano indispensabili a rendere leggibile la complessità figurativa dei pezzi. L’aspetto precedente la rimozione di queste aggiunte è testimoniato da una foto Alinari (n. 12755) che mostra le sculture in migliore stato di conservazione e ancora issate sulla porta di San Marcello. Oggi il San Cristoforo, pur essendo il meglio conservato, ha il piede destro quasi del tutto perduto e il pollice sinistro rotto. Tutta la superficie è corrosa più o meno severamente - i danni peggiori sono sul braccio destro e il corpo del Bambino - e diffusissime sono sbrecciature e rotture. Il gruppo della Madonna con il Bambino è, purtroppo, gravemente offeso: il piede destro della Vergine è mutilo, quello sinistro sbeccato in punta, la mano sinistra è mancante quasi del tutto, mentre l’altra è perduta insieme alla gamba destra del Bambino. Quest’ultimo ha entrambe le braccia troncate e non ha più la testa.

Il volto della Vergine è frutto della ricomposizione di più frammenti, avendo perduto il labbro inferiore, il naso e la superficie della pietra su gran parte della metà superiore del viso. I complessi panneggi del manto, specie nelle pieghe tubolari rilevate da alti sottosquadri, sono sia in basso che in alto sbeccati e rotti. Il ginocchio destro è staccato e riapplicato. Tutta la superficie (nel petto specialmente) ha subito la perdita dello strato finale di finitura. Il San Vincenzo è meglio conservato per quanto riguarda il corpo compatto e rinchiuso entro la dalmatica, ma la mano destra manca del pollice e dell’indice; la testa è spezzata e ricollocata sul busto, e tutto il volto è deturpato da rotture. Nonostante tale rovinoso stato di conservazione le sculture conservano alcune, seppur infinitesimali, tracce di policromia: nel volto della Madonna, nei capelli di san Cristoforoe infine nella dalmatica di san Vincenzo alcuni frammenti di coloritura e doratura. Sebbene non vi possa essere dubbio che anche in origine le opere fossero cromaticamente rifinite, non si può dire a quando possa risalire la stesura cui appartengono tali avanzi. Manca l’asta che il santo doveva reggere nella mano destra (testimoniata quando le statue erano ancora in situ, ma certamente già allora di restauro). Le figure hanno perso i nimbi (metallici?), forse rifacimenti di un elemento originale, e oggi testimoniati dalla citata fotografia Alinari.

La storia critica del gruppo, che vanta una bibliografia assai ampia, è stata viziata da un fraintendimento di base, ovverosia la datazione al 1530 circa del portale nel quale le statue furono collocate. Tale data è stata in genere desunta da Barbarano de’ Mironi (1761, V, p. 93). Secondo lo storico, l’ospedale avrebbe cominciato allora a raccogliere gli infanti abbandonati cui l’iscrizione sul portale fa allusione. Tale aggancio cronologico è stato preso per buono nella letteratura posteriore (Bortolan-Rumor, 1919; De Mori, 1928; Fasolo, 1940; Barbieri, 1962, I) forse sulla scia di Magrini1 (1845, p. 48), e non viene smentito nemmeno nell’articolato capitolo che Barbieri dedica alle opere nella sua monografia sulla scultura vicentina del 1984, dove pur è notato che lo stile delle finestre laterali della cappella non si discosta molto da opere databili intorno al 1480. Già Arslan (1956), tuttavia, si era ben reso conto della corretta cronologia della porta poiché giudica strana la data 1530 e legge le decorazioni a girali come di gusto “ancora donatelliano” confrontandola con la porta meridionale della chiesa di Santa Maria Etiopissa a Polegge datata 1474, ma per la quale bisogna presupporre anche modelli più maturi, specie per la cornice dell’arco a unghiature (Arslan, 1956, p. 188; Barbieri, 1984, p. 51). Solo recentissimamente la porta è stata riconosciuta definitivamente come del “tardo Quattrocento” (Barbieri-Cevese, 2004) con una datazione forse addirittura troppo generica. Infatti le caratteristiche stilistiche dell’opera sono assai chiare. La parte inferiore, come ha perfettamente visto Arslan, non può datarsi molto oltre la metà del quattrocento anche tenendo conto che l’ospedale e la confraternita già dedita al ricovero dell’infanzia abbandonata ricevettero in quel torno di tempo ingentissime somme da Simone di Battista e Francesco di Bartolomeo Porto, esecutori testamentari delle volontà di Francesco di Battista Porto morto nel 1442 (Bortolan, 1903, pp. 9-10), e tale generoso patronato, ratificato dalla fraglia dei Battuti, fu ribadito nel 1449 col legato di Simone stesso.

Nella cornice della porta convivono lemmi gotici come il cordolo perimetrale, seppur trasformato in ghirlanda di foglie di alloro, o le mensole normali allo stipite con embrionali vocaboli di uno stile all’antica come il rado salire delle acerbe volute vegetali, ai girali poveri di sottosquadri, molto disegnati e in qualche punto ricavati come a traforo, alle fogliette e alle fuseruole di dimensioni maggiori del dovuto e dal rigido profilo. Nello scarno panorama vicentino di quegli anni si potrebbe assumere come termini di una forbice cronologica il parapetto della polifora di palazzo Regaù, dove una cornice di ovoli si perde entro un rigoglio di acanti tardogotici (bottega di Giovanni Grandi verso la metà del secolo?: Barbieri, 1984, p. 10), e l’ancona di San Bernardino (ora murata in San Lorenzo nell’altare Poiana), datata usualmente 1456 e assai più matura se pure conservi, compitando un ben più svolto eloquio padovano, una certa ingenuità nell’uso degli ornati. Una data tra il 1459 e il 1462, proposte da Barbieri (1982, pp. 84-89) per l’ampliamento dell’ospedale di San Marcello, potrebbe corrispondere bene all’esecuzione della prima cornice, solo del primo contorno, si badi, di questa porta. Solo Zorzi (1959, p. 361, n. 26) si rese conto infatti, seppur senza trarne le dovute conclusioni, che la parte superiore della porta esibisce un linguaggio architettonico e decorativo assai diverso. Dall’architrave in su il lessico all’antica diviene assai più consapevole e maturo: si noti il digradare delle fasce intercalate da perline e fuseruole, la differenza sostanziale delle fogliette elegantemente piegate a formare una gola rovescia. Nella parte superiore spiccano la diversità lampante delle paraste ornate di un tralcio vegetale entro un’elegante modanatura a gola - al posto dei listelli amorfi della parte inferiore -, i magnifici mazzi di frutta e di fiori intagliati nell’intradosso, e a segnare l’imposta dell’arco in funzione di capitello, una ghiera di ovoli perfettamente formati e incuneati tra le loro lancette. Buoni confronti per orientare la datazione di questo fastigio sono quello con l’incorniciatura dell’altare Poiana in San Lorenzo (1474?), o, nonostante lo scarto di dimensioni, di materiale e, conseguentemente, di lavorazione, il portale di palazzo Porto-Breganze, datato 1481, e voluto, ragione aggiuntiva forse non trascurabile, da Alvise Porto. Se la si immagina coronata da un arco a tutto sesto forse arricchito da una tenda - poi sostituita dal sontuoso sipario di Marinali - l’edicola superiore assomiglia ancor di più al portale del palazzo vicentino. A questa seconda fase deve appartenere la bella iscrizione in capitali antiche intercalate da segni di separazione in forma di fogliette - riportata con errori anche da Faccioli (1776, I, p. 44) che recita: “Beatae Mariae Virgini. Expositorum Infantium ac Pietatis Hospitium” - e di una eleganza eccessiva per il sesto decennio del secolo. Non è impossibile che la data del coronamento del portale si possa un giorno legare a uno dei privilegi che sovvennero l’ospedale negli anni settanta: le esenzioni del doge Andrea Vendramin, o forse meglio l’indulgenza concessa dal cardinale d’Aragona, legato pontificio in Ungheria, Boemia e Polonia e di passaggio a Vicenza agli inizi di ottobre del 1479 (Bortolan, 1903, pp. 46-47). Stando così le cose è evidente che l’ipotesi che le tre figure fossero nate in altra collocazione e trasportate sulla porta entro il 1630, quando sono citate in questa posizione da Castellini (Descrizione…, BBVi, Gonzati 22.11.15-22.11.16, I), viene a cadere (Bortolan-Rumor, 1919; De Mori, 1928; Fasolo, 1940): è nata nella storiografia solo per l’impossibilità di conciliare lo stile del gruppo scultoreo con la data della porta. Ricollocata ogni cosa nella sua giusta cronologia si comprende assai bene il progetto di coronare la porta dell’oratorio con un teatro sacro nel quale i tre personaggi trovavano il loro spazio. Tanto più che Barbarano (1761) asserisce che sull’altare vi erano “altre immagini simili, che sopra la porta”. Quanto a questo, andrebbe controllata la veridicità della notizia fornita da Magrini (1848, p. 157) che la Vergine della Misericordia di Antonino da Venezia (primi anni quaranta), ora in San Felice, fosse già sull’altare della chiesa di San Marcello. Da un documento del 22 marzo 1492, segnalatomi con amicale generosità da Maria Luigia De Gregorio, apprendiamo che nel sigillo ufficiale della fraglia tornavano le immagini della Vergine, di San Cristoforo e di San Vincenzo (ASVi, Ospedale di San Marcello, b. 16): purtroppo non essendosi ritrovato alcun esemplare di tale sigillo non possiamo sapere, se come è ben possibile, esso fosse esemplato sul gruppo scultoreo del portale.

Per la storia attributiva delle tre statue è utile la precisa rassegna di Barbieri (1962, I; 1984). Vale la pena ripercorrere le tappe salienti a partire dal sempre fondamentale contributo di Pietro Paoletti (1893, pp. 158-159), che inserisce le sculture in un contesto del tutto veneziano confrontandole con opere di Pietro Lombardo (le statue dell’altare Corbelli in Santo Stefano) ma anche, per quanto riguarda il San Cristoforo, con le opere di Antonio Rizzo per l’Arco Foscari e per San Vincenzo con Bellano.

Il primo a virare i confronti verso la Lombardia, ma in modo del tutto cursorio nello spazio di una didascalia, è Malaguzzi Valeri seguito da Adolfo Venturi. Zorzi (1926; 1937; 1959) risolveva la questione tornando più volte a proporre la paternità di uno scultore lombardo a Vicenza, e cioè Tommaso da Milano con l’aiuto di Bernardino da Milano, per dei confronti per altro scarsamente pertinenti con l’altare Garzadori in Santa Corona. Una terza proposta, infine, è quella di vedere all’opera nelle statue dell’Ospedale la bottega dei Fonduli, avanzata in forma verbale da Giuseppe Fiocco e Wanda Terni de Gregori (Barbieri, 1984); il riferimento ha preso lentamente piede, lasciando aperta la discussione su Giovanni di Fondulino e Agostino di Giovanni Fonduli, cioè tra le due generazioni di plasticatori (Terni de Gregori e Puppi sostengono l’attribuzione a Giovanni; Fiocco ad Agostino). Anche la bibliografia più recente sui plasticatori padovani ha perpetuato la medesima incertezza, dividendosi tra chi ha proposto di vedervi la fase giovanile di Agostino (Corradi Galgano, 1996) e chi ha preferito sottolineare, seppure cavandone diverse soluzioni, le difficoltà dell’ipotesi (Bandera, 1997; Ericani, 1999).

Tornando alle statue si osserverà che, come già scritto da Paoletti, la qualità e lo stile delle figure non è affatto simile. Vi è perfino un leggerissimo scarto dimensionale, al punto tale che il San Vincenzo appare addirittura un poco maggiore rispetto alla Vergine. Quest’ultima è senza dubbio la figura più attentamente studiata nell’hanchement sottilmente calibrato e nel disporsi delle vesti in più leggere pieghe orientate della tunica o nelle profonde anse del manto. Il San Cristoforo con piedi grandi e gambe troppo sottili e un corpo per nulla monumentale rispetto a quanto ci si potrebbe attendere dal traghettatore di anime, ha il suo punto di forza nel viso in iscorcio incorniciato dalle ciocche serrate dei riccioli. Il San Vincenzo infine, chiuso nel bozzolo della sua dalmatica, pur rifinita nelle decorazioni ricamate e nel suo lento rigirarsi dei lembi, è la figura più debole e della quale è assai difficile immaginarsi l’anatomia del corpo. Analizzando le componenti stilistiche delle tre opere, fatta la tara degli evidenti salti qualitativi, non si può dire che né il carattere lombardo - il cantiere della Certosa anni ottanta -, né un’origine padovana siano chiavi in grado di interpretare questo universo stilistico che se mai risentirà di un mantegnismo piuttosto generico e di seconda mano avvistato, nel San Cristoforo, da Paoletti tanto da chiamare in causa l’Adamo del Rizzo. In verità per tali scelte di stile sarebbe quasi bastato avere appeso in bottega un foglio della Deposizione del sepolcro per poter studiare con agio l’effetto del corpo che affiora avvolto dalle pieghe profonde delle vesti e il volto segnato e urlante di Giovanni. Se tutto il fastigio della porta di San Marcello deve cadere tra ottavo e nono decennio, anche le sculture, oltre che gli ornati, potranno rientrare in quell’onda lunga di vulgata mantegnesca che sembra essere anche per la pittura, all’altezza degli esordi di Bartolomeo Montagna dal 1474, una via perfettamente percorribile come dimostra l’affresco, bello quanto misterioso dell’altare di Odorico Poiana in San Lorenzo (Tanzi, 1990, II, p. 604), entro quell’incorniciatura opportunamente richiamata da Zorzi (1959, p. 361, n. 26) confrontando la nicchia di San Marcello. Solo a questo patto Padova può essere un riferimento che dice qualcosa intorno a queste sculture poiché, invece, ad una verifica puntuale sarebbe assai arduo avvicinare alle statue di San Marcello qualche preciso esemplare di plastica padovana. In verità siffatte figure di santi e siffatte Madonne elegantemente atteggiate, di una qualità spesso variabile e ondivaga, sembrano popolare anche a Venezia il coronamento dei cori (Santa Maria Gloriosa dei Frari, Santo Stefano) o delle fabbriche nuove (Santa Maria dei Miracoli, tondi coi profeti; Scuola Grande di San Marco, coronamento; San Zaccaria, coronamento), e spesso mostrano la stessa furbesca commistione di espressività caricata di origine lombarda e di moduli e schemi figurativi di lata origine padovana e veneziana. Anche in laguna questi nomi sono per ora destinati a restare anonimi ma è chiaro come vi sia una diffusione di maestranze anche nel Veneto di entroterra, salvo forse nella piazza padovana appagata dalla sua specifica e altissima tradizione locale, che attende ancora un’anagrafe precisa delle presenze e degli spostamenti di maestri e botteghe.

Bibliografia

Bibliografia: Favetta, Fatti successi…, BBVi, ms 3224, c. 68; Castellini, Descrizione…, BBVi, Gonzati 22.11.15-22.11.16, I, c. 101v-102; Vicenza illustrata, ms., p. 153; Barbarano, 1761, p. 94; Alverà, ms.; Favetta, vedi testo; Forestiere istruito, 1842, p. 14; Pieriboni, 1858, p. 9; Castellini-Rumor, 1885, pp. 50-51; Borenius, 1909, p. 176, n. 2 (il gruppo è citato come antecedente dello studio all’antica di Montagna-Speranza. Ma dice che dei tre il pezzo migliore è SanCristoforo); Bortolan-Rumor, 1919, p. 22; Malaguzzi Valeri, 1904, p. 15; Venturi, 1908, p. 982; Zorzi, 1926, p. 9; De Mori, 1928, p. 124; Zorzi, 1937, p. 88; Fasolo, 1940, p. 50, cat. 192-194 (Tommaso da Lugano o da Milano? padre di Rocco da Vicenza); [Magagnato], 1950; Magagnato, 1952, p. 20 (nono decennio); Magagnato, in Barbieri-Cevese-Magagnato, 1953, pp. 71-72; Arslan, 1956, pp. 57, 132-133; Barbieri, 1962, I, pp. 241-246; Zorzi, 1964, I, pp. 355-356, 373-371; Barbieri, 1970, p. 36; Puppi, 1976, p. 153; Barbieri, 1984, pp. 22-25; Corradi Galgano, 1996, pp.71-72 (Agostino F., specie la Madonna); Bandera, 1997, p. 32; Ericani, 1999, pp. 67-68; Barbieri-Cevese, 2004, p. 350.

Quest’opera appartiene al percorso: