Francesco Sforza

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AutoreAlberto Maffioli
Periodo(Carrara, notizie dal 1486 al 1499)
SupportoMarmo di Carrara, 185x78,5x53,5
InventarioS 3

L'opera appartiene ad una coppia di statue.
Consultare anche Inv. S 4

Le due statue in marmo di Carrara sono probabilmente gli unici ritratti scultorei a piena figura noti del duca di Milano Francesco Sforza e di sua moglie Bianca Maria Visconti.

Furono commissionate allo scultore carrarino Alberto Maffioli come elemento decorativo della facciata del Duomo di Cremona, sottoposta attorno alla fine del Quattrocento ad un radicale intervento di restauro, eseguito dallo stesso Maffioli e da alcuni suoi collaboratori.

Accesa fu la disputa circa la collocazione delle due statue: Ludovico il Moro le voleva posizionate in due incassi della facciata sollevati dal suolo di circa sei metri, Maffioli, invece, accettata una posizione simile per la statua di Bianca Maria, aveva pensato di collocare in una nicchia del portico antistante la facciata l’effige del duca, che egli aveva concepito per una visione ravvicinata. Alla luce di questa controversia, dalla quale lo scultore uscì sconfitto, si può spiegare il diverso livello di compiutezza dei due lavori: l’immagine di Francesco Sforza appare rifinita sin nei minimi particolari, quella di Bianca Maria si mostra invece in un disorganico stato di non finito, come levigata sommariamente per uniformare una superficie con tratti di materia ancora da modellare” (Zani).

La statua del duca, che probabilmente reggeva tra le mani un’arma andata perduta, si propone “come il massimo esempio di adesione al concetto bramantesco della figura. La derivazione dagli Uomini d’arme di casa Panigarola a Milano […] è così profonda, meditata e partecipata da far apparire la statua dello Sforza alla stregua di una materializzazione tridimensionale di quelle figure affrescate da Bramante” (Zani).

Il gruppo scultoreo, trasportato a Venezia poco dopo la conquista di Cremona da parte dei veneziani nel 1499, fu collocato in Palazzo Ducale, in seguito entrò a far parte della collezione del conte vicentino Girolamo Egidio Di Velo e successivamente di quella del Museo.

Iscrizioni

FS nella terminazione della cinghia davanti al petto

Provenienza

Cremona, duomo della Beata Vergine assunta e santi Imerio e Omobono, 1494-1501; Venezia, Palazzo Ducale, 1581; acquisto Girolamo Egidio Di Velo, Vicenza sec. XIX in.; legato Girolamo Egidio di Velo, Vicenza 1831

Inventari

[1831]: 148. Statua di guerriero moderno. Lire 70; 1902: c. 117, 16. Marmo [depennato di Carrara]. Statua in piedi di guerriero vestito d’armatura di ferro, rappresentante Francesco Sforza (vedi nota n. 11). Alta m 1.86. Ha spezzate le ultime falangi delle 4 dita della mano destra e tutte 5 della sinistra, mancano alcuni pezzi d’armatura del braccio sinistro e di quella sui fianchi che ricopre il ventre, inoltre è scheggiato il gomito destro; [1954]: E II 30. Statua in marmo bianco di Francesco Sforza. Opera di Alberto [a penna Maffioli] da Carrara (metà secolo XV). Dono conte Egidio Di Velo. Cm 185x78.5 [a matita sala dello Zodiaco; Fasolo 1940, 169].

Descrizione tecnica

L'opera appartiene ad una coppia di statue.
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Entrambe le statue risultano complessivamente ben conservate, sebbene in quella di Francesco Sforza si rilevi la grave lacuna di quasi tutte le dita e il distacco, ricongiunto, della mano sinistra, oltre a qualche sbeccatura soprattutto lungo i bordi dell’armatura. Le due statue divergono tuttavia profondamente l’una dall’altra per il rispettivo grado di compiutezza con cui sono condotte. Quella di Francesco Sforza si presenta quasi interamente rifinita fin nei minimi dettagli. Fa eccezione in alcuni brani soltanto la fitta e minuta incisione che modella la trama della maglia metallica: sul lembo ricadente davanti alla gamba destra risulta compiuta solo nella parte frontale, mentre su quello opposto compare unicamente di lato, in una porzione quadrangolare di pochi centimetri (tutto il rimanente non inciso è lisciato a lucido). La statua di Bianca Maria si mostra invece in un disorganico stato di non finito, come levigata sommariamente per uniformare una superficie con tratti di materia ancora da modellare, soprattutto nelle parti laterali e retrostanti del velo, mentre i piedi non sono nemmeno accennati alla base del blocco marmoreo, terminante nella sagoma circolare di un improbabile piedistallo. Anche il volto sembra malamente ultimato, coi connotati appena delineati e il naso dalla forma asimmetrica. Questi particolari non finiti o nemmeno abbozzati si concentrano verso il dorso della figura, profondamente incavato, offrendo un ulteriore elemento di divergenza rispetto alla statua del duca, che, non solo per le rifiniture, sembrerebbe concepita per una visuale ravvicinata e dal raggio piuttosto ampio, oltre a recare un incavo dorsale assai più contenuto.

È plausibile che tale incavo dietro la figura dello Sforza, così come l’approssimativa e prematura ultimazione di quella di Bianca Maria, siano da imputare ad esigenze di adattamento e a modifiche in corso d’opera avvicendatesi lungo la sofferta contesa sulla collocazione delle due statue. Esse rientravano nel più ampio programma di ammodernamento della facciata del duomo di Cremona, che, tramite l’innalzamento del frontespizio e la costruzione in lotti del portico antistante la cattedrale e il Torrazzo, avrebbe sensibilmente mutato il volto degli edifici monumentali affacciati alla piazza maggiore della città.

Una serie epistolare, ricomposta da vari fondi archivistici ad opera di Beltrami (1901) e di Biandrà Trecchi (1939), a cui si aggiunge qui un pezzo inedito, testimonia gli svariati disaccordi emersi da più parti durante la conduzione dell’impresa, affidata il 5 giugno 1491 ad Alberto Maffioli da Carrara e collaboratori (non risulta pervenuto il contratto, di cui però si ha notizia in un successivo atto del 18 luglio di quell’anno, reso noto da Bonetti, 1927, pp. 115-116).

Già il 10 giugno, Ludovico il Moro scriveva da Pavia al segretario ducale Bartolomeo Calco affinché comunicasse ai fabbricieri della cattedrale cremonese di aver ricevuto personalmente Maffioli e “che quanto specta alli pacti et accordo facti con epso maestro noi ne restiamo contenti”, mentre, riguardo alle due statue “de illustrissimi nostri patre et matre [...] le faccino mettere in le prime casse alte de dece braza et siino armate [...], como havemo ancora noi dicto al ingeniero” (Biandrà Trecchi, 1939, p. 472 e seguenti per le successive lettere; trascrizione integrale del presente documento in Beltrami, 1901, p. 271). Il progetto era dunque approvato, ma pare di capire che nel contratto non fosse definita con sufficiente precisione la collocazione dei due ritratti ducali, che il Moro voleva ancorati sulla facciata, in due incassi alti da terra circa sei metri.

Passato poco più di un anno, il 3 agosto 1492 i fabbriceri inoltrarono al duca le loro lamentele circa ”l’apetito de magistro Alberto che, mosso più presto da qualche emulazione d’altri”, intendeva sistemare la statua “del imortale signore patre de vostra excelentia” più in basso, modificando il disegno della “logia adhesa alla cathedrale [...], quale era de lignami et antiqua, et mo conducta a volte cum columne XII marmoree”, mentre “a noi pareria ponere et colocare le imagine de li prelibati genitori [...] nel fronte della porta grande presso alli nostri gloriosissimi patroni sancti Hymerio et Homobono primi in contemplacione commo se intra nella dicta piazza”. La localizzazione proposta dai fabbriceri era dunque nella grande edicola a trittico sopra l’antico protiro del portale d’ingresso, insieme alle figure trecentesche della Madonna con il Bambino e dei patroni di Cremona, magari nelle nicchie retrostanti che un tempo ospitavano queste più antiche statue. A quanto è dato di capire, Maffioli poteva aver accettato tale collocazione per la statua di Bianca Maria, ma il testo riferisce esplicitamente che egli intendeva invece porre entro il portico quella di Francesco Sforza, concependola dunque per una visuale ravvicinata. Il contenuto della lettera dei fabbricieri, recante anche obiezioni circa la quota d’innalzamento della facciata, venne in sostanza confermato in una lettera che i canonici e il capitolo del duomo indirizzarono al duca quello stesso giorno.

Nel giro di neanche due mesi, in una missiva priva di data, i massari della fabbrica rinnovarono le loro rimostranze al segretario ducale, anche questa volta chiamando in causa la sola statua di Francesco Sforza, che Maffioli avrebbe voluto “mettere in loco basso dove la non staria così bene, né così convenientemente come se la fosse posta in loco eminente, come la meriteria et como furo parere de lo illustrissimo signor duca Hercole de Ferraria, quando la soa signoria venne a Cremona”; nella stessa missiva veniva chiesto al destinatario di intercedere presso il Moro affinché Maffioli cessasse i lavori di scasso della muratura del portico anteposto alla facciata, ove voleva ricavare una nicchia per collocare la figura di Francesco Sforza (“sarà bene fatto scrivere in nome de nostro illustrissimo signore ch’el se debba cessare de fare ruinare la parte d’esso porticu, per insino sia stabilito, dove se habia a ponere essa immagine, la quale non poteria star in loco più conveniente como è quello che già fu perposto”).

Il Moro intervenne il 30 settembre 1492 con una lettera, ancora inedita (ASMi, Comuni, b. 30), nella quale, adducendo anch’egli il parere di Ercole D’Este, di cui aveva sposato la figlia l’anno prima, decretava che “nuy se resolvemo in quanto che lo portico principiato se debia fornire et dal mezo in suso se faza la fazada secundo el desegno che me fu monstrato; de le figure de li illustrissimi signori nostri patre et matre non volemo siano missi a loco alcuno sinché per nuy non siano designati li loghi lor”.

La definitiva sistemazione delle statue decisa dal Moro venne comunicata dopo circa un anno, con una lettera scritta il 14 novembre 1493, “ad fabbricerios ecclesiae maioris pro immaginibus illustrorum patris et matris Ludovici Mariae Sfortiae Vicecomitis ducis mediolani ponendis supra portam ecclesiae maioris”: si tratta di una lettera perduta, nota soltanto per questo accenno riportato in un registro di missive ducali, comunque sufficiente a far comprendere quale fosse la decisione finale.

Conformemente a questa, vennero a chiudersi nel giro di un anno gli affari tra Maffioli ed i massari della fabbrica, secondo i termini di un contratto rogato a Cremona il 12 settembre 1494 (Bonetti, 1927, pp. 125-126, in trascrizione, con intestazione errata, seguita da quella corretta. Il documento, di cui Bonetti non precisa la collocazione archivistica, si trova in ASCr, Notarile, b. 360). Vi è riportato che “magister Albertus fecerit et fabricaverit sculpserit ac perficerit in totam immaginem prefati domini ducis Francisci et parum restet ad perficere immaginem prefatae dominae Blancae, et de quibus immaginibus magister Albertus fuit et sit creditor prefatae fabricae in et de precio seu valore dictae imaginis”. Maffioli è detto creditore anche per i lavori di demolizione apportati alla sommità della facciata (il cui innalzamento rimaneva da eseguire), oltre che per due rilievi con Serafini ed altri marmi, almeno in parte istallati ancor oggi sul prospetto, nonché per un busto di Beatrice D’Este, perduto, la cui collocazione prevista era sul pilone apicale della cuspide in facciata, poi demolito e sostituito in seguito (“unum pulcrum caput cum pectore illustrissimae dominae ducissae Barri, consortis prelibati illustrissimi domini domini Ludovici [...] ponendi in pilono fronespicii predicto”). Quanto alle due statue di Francesco e Bianca Maria Sforza, veniva invece stabilito che il Maffioli era tenuto a “ponere in opere ac collocare prefatas duas imagines prefatorum ducum cum eorum capsis honorificis juxta mandatum prefatorum dominorum massariorum […] in loco sibi per dominos tunc massarios assignato, iuxta tamen ordinationem illustrissimi domini ducis Ludovici”.

L’atto del settembre 1494 segnò per lo scultore un amaro congedo anzitempo dalla fabbrica del duomo, considerando anche che la conclusione dei lavori sembra fosse prevista per l’ottobre 1495, come si evince da un contratto di affitto quadriennale per un laboratorio ad uso degli architetti e dei lavoranti, stipulato nel novembre 1491 tra i massari della fabbrica del duomo e un privato cittadino (Bonetti, 1927, p. 116).

All’epilogo di questa disputa, durata tre anni e tre mesi, non è difficile capire come mai Maffioli consegnò la statua dello Sforza minutamente rifinita e quella di Bianca Maria ancora da portare a termine. Sulla prima si era concentrato nel proposito di compiere un capolavoro a portata d’occhio, sperando forse che l’eccellente riuscita dell’opera avrebbe persuaso le controparti ad accettarne una collocazione ribassata. All’altra figura dovette certamente dedicare meno impegno, destinata com’era ad una visuale assai più difficoltosa, che ne avrebbe nascosto anche i piedi, appositamente non eseguiti. In tal senso, si potrebbe spiegare anche la diversità degli incavi rispettivamente apportati sui dorsi delle statue per alleggerirne il peso: quello dietro la figura di Bianca Maria, molto più ampio, sembrerebbe conforme all’abbondante massa originaria della statua, mentre quello sulla schiena del duca lascerebbe supporre un intervento di adattamento alla definitiva collocazione elevata, poiché, se non fosse stato per questioni di peso, la figura avrebbe potuto essere normalmente fissata tramite un gancio metallico ad anello inchiavardato al dorso.

Non si sa se Maffioli, successivamente documentato a Cremona in una sola altra occasione nel 1495, per la restituzione di un prestito, avesse provveduto alla messa in opera delle sue statue. Neppure è dato sapere se la sommaria levigatura superficiale della statua di Bianca Maria sia stata eseguita da lui o da altri. Certo è che il lotto preponderante dei lavori della facciata, consistente nella realizzazione del frontespizio e di gran parte delle figure in esso collocate, venne di lì a poco allogato a Giovan Pietro da Rho. Il quale veniva compensato il primo dicembre 1501 per l’opera fin lì prestata (stimata da Paolo Sacca e Agostino De Fonduli), impegnandosi però a compiere delle finiture sul prospetto, “usque ad pedes figurae seu imaginis marmoreae illustrissimi domini domini Francisci Sfortiae olim duci Mediolani et illustrissimae Blancae Mariae Vicecomitis positae in dicta fazata” (Bonetti, 1927, p. 120).

Tale annotazione dimostra che le statue non vennero subito rimosse al momento della conquista di Cremona da parte dei veneziani, nel 1499, anche se è probabile il loro trasporto a Venezia, di lì a poco, come trofei di guerra. La loro storia nota riprende comunque a Venezia, nel 1581, con la prima ed imprecisa menzione a stampa, dovuta a Francesco Sansovino, che sembra quasi confondere il soggetto delle statue con un ricordo ormai svanito del loro autore. Nel descrivere i corredi delle sale dell’Armamento in Palazzo Ducale, egli infatti menziona una statua “la quale si crede che fosse di Bianca Maria, moglie del duca Francesco Sforza, et la statua di marmo di Francesco Novello da Carrara, ultimo signore di Padova”. A metà settecento, le due figure compaiono riprodotte in un disegno all’interno di un codice redatto da tale “Jo. Grevenbroch”, con la seguente didascalia: “Due statue di fino marmo esistenti tra le rarità nelle sale del Consiglio dei Dieci in Venezia: l’una rappresenta la vera effigie di Francesco Sforza duca di Milano; l’altra una certa sembianza di Bianca Maria figlia ed erede di Filippo Visconti già Duca e divenuta una delle mogli di Francesco medesimo, aggregati alla veneta nobiltà l’anno 1439” (Cogliati Arano, 1978, pp. 295, 304, ill. 10). Da notare che nel disegno l’immagine di Francesco Sforza presenta entrambe le mani integre, ed è probabile che ciò rispondesse all’effettivo stato dell’opera anziché ad un’arbitraria integrazione del disegnatore, il quale riportò con puntuale precisione le divergenti e pure incongrue lavorazioni della maglia metallica sui lembi pendenti davanti alle cosce dell’effigiato, cui si è qui accennato in apertura. Non si sa quando le statue lasciarono Venezia. Sulla base dei disegni del Grevembroch esse vennero riconosciute da Paoletti (1893, p. 295) nel Museo di Vicenza, “tra gli oggetti provenienti dalla Raccolta del conte Velo”, insieme ad altri marmi rinascimentali acquistati a Venezia dallo stesso, poi donati al museo vicentino.

Sugli ultimi passaggi delle due statue risultano più dettagliati i ragguagli che Biandrà Trecchi (1939, p. 476) ottenne dall’allora direttore del Museo di Vicenza, secondo cui “dette statue insieme ad altri marmi vennero acquistate nel 1800 dal conte Girolamo di Velo d’Astico, Nobile Vicentino, il quale le portò a Vicenza. Il suo erede conte Marcantonio, le lasciò in eredità al Museo vicentino il 1840. In un elenco datato in quell’anno e testè ritrovato dal professor Fasolo, benemerito Direttore di quel Museo civico, le statue sono così descritte: “Una statua di donna di marmo bianco di grandezza naturale. Altra statua di marmo bianco un terzo più grande del vero rappresentante un guerriero in armatura sotto cui si scopre la maglia”. Secondo Barbieri (1962, I, p. 141), la donazione al Museo avvenne invece nel 1846.

A fine ottocento, quando vennero riconosciute da Paoletti per i loro trascorsi veneziani, le due statue non erano dunque che opere erratiche, anonime e dalle origini ignote. Fu proprio Paoletti che, di fronte al soggetto lombardo dei due ritratti, intuì “la congettura della loro provenienza da Cremona, dopodiché nel 1499 questa città fu conquistata dai Veneziani”. Ancor più degno di nota è il suo penetrante giudizio stilistico ed empirico sulle due figure: “la marziale statua dello Sforza, espressiva, ben proporzionata e condotta con amorosa accuratezza può stare tra le opere più ragguardevoli dell’arte lombarda nello scorcio del secolo XV. Diverso sembra all’incontro lo scalpello che eseguì la statua di Bianca Maria Visconti, che d’altronde ha l’impronta sommaria di un lavoro decorativo destinato ad un lontano punto di veduta”.

Raccogliendo l’ipotesi della provenienza da Cremona, Beltrami tentò nel 1906 un’interpretazione delle due opere sulla base di una missiva ducale milanese datata 1454, da cui risulta che Francesco Sforza aveva ordinato a Filarete il progetto, in realtà mai eseguito, di un arco monumentale da allestire nella piazza maggiore di Cremona, ospitante il suo ritratto e quello di sua moglie Bianca Maria. Beltrami propose così di attribuire a Filarete le statue finite a Vicenza, guadagnando però immediata smentita (Lazzaroni-Muñoz, 1908, pp. 181-182), per poi fare ammenda in seguito.

Il documento cremonese del 1494 ove è registrata la consegna delle due statue in cattedrale ad opera di Maffioli venne pubblicato solo nel 1927 da Bonetti, che non ebbe difficoltà a fare i dovuti collegamenti tra i marmi e le carte.

Da qui, la scarna vicenda storiografica delle due statue è proceduta sotto il nome di Maffioli, rispecchiando in qualche modo l’assai marginale considerazione critica accreditata all’artista e al suo ruolo nel quadro della scultura lombarda di tardo quattrocento. Questo misterioso artefice, scarsamente documentato e dalle poche opere assai poco studiate, compare nel 1486 a Parma, dove esegue la monumentale ancona in marmo dietro l’altar maggiore del duomo: un apparato con statue di cultura lombarda, la cui composizione architettonica riprende alla lettera l’altare Piccolomini del duomo di Siena, eseguito da Andrea Bregno solo qualche anno prima. Sempre a Parma, nel 1488 realizza un recinto lapideo per l’organo del battistero, ora smantellato, di cui si conservano parti di scarsa levatura figurativa.

Il 15 luglio 1489 Maffioli è in certosa a Pavia, dove, in virtù di un unico contratto, si impegna ad eseguire entro un anno il lavabo di una sacrestia e, in seguito, due figure di Maria annunciata e dell’Angelo annunziante da porre all’ingresso del convento, con la clausola che, in caso di mancato apprezzamento delle due figure da parte dei committenti, questi si sarebbero riservati la facoltà di licenziarlo. Molto problematico appare il lavabo, dove ritorna la giustapposizione tra una struttura di derivazione toscana (qui paragonabile ad esempio a quella del coevo lavabo nel refettorio di San Ponziano a Lucca) e il figurativismo lombardo dei notevoli rilievi narrativi sulla parete di fondo. Mancano invece le figure dell’Annunciazione, che probabilmente comportarono a Maffioli il licenziamento, se a distanza di nemmeno due anni da quel contratto egli giunge a Cremona. Qui, l’insistenza con la quale tenta di ottenere per la statua dello Sforza una collocazione ravvicinata agli sguardi e la cura “certosina” che le dedica nell’eseguirla sembrano rivelare che Maffioli cerca la sua grande occasione di rivalsa in quella figura dal portentoso impatto. Al di là della cura dei dettagli, già opportunamente ricondotta dalla critica ad un probabile influsso di Gian Cristoforo Romano, il ritratto di Francesco Sforza si pone senza paragoni nel quadro della statuaria lapidea lombarda di fine quattrocento come il massimo esempio di adesione al concetto bramantesco della figura. La derivazione dagli Uomini d’arme di casa Panigarola a Milano, che i più recenti studi datano al 1486-1487, è così profonda, meditata e partecipata da far apparire la statua dello Sforza alla stregua di una materializzazione tridimensionale di quelle figure affrescate da Bramante. La ricercata molteplicità dei punti di vista percepibile nella statua lascia credere che anche lo stesso vano pensato per ospitarla, che Maffioli andava approntando su una parete del portico, avrebbe dovuto restituire alla realtà l’ampio spazio simulato prospetticamente da Bramante nelle nicchie di casa Panigarola, e forse anche l’altezza d’esposizione della figura avrebbe dovuto corrispondere a quella, piuttosto ribassata, del ciclo affrescato. Non pare dunque azzardato ipotizzare che i fabbricieri della cattedrale cremonese intendessero alludere proprio a Bramante nel giudicare Maffioli “mosso più presto da qualche emulazione d’altri”. Il legame con gli Uomini d’arme offre un motivo in più per congetturare che la statua dello Sforza potesse reggere tra le mani qualche arma posticcia: accessori in metallo o in legno metallizzato, tecnicamente simili a quelli che, in funzione di attributi iconografici, ricorrevano ai tempi anche nella statuaria a soggetto sacro.

Se fosse stata esposta nel modo voluto da Maffioli, o, comunque, se fosse rimasta a Cremona per più tempo, c’è da chiedersi quale effetto avrebbe potuto suscitare questa figura sulla statuaria lapidea lombarda nel delicato momento della transizione al nuovo secolo, offrendo un’alternativa di pari novità e qualità agli spunti in chiave veneziana introdotti a Milano da Andrea Fusina e soprattutto da Cristoforo Solari, che finì per dominare il rinnovamento primocinquecentesco.

Le due statue di Maffioli cadono anche in contemporanea con la preparazione, ad opera di Leonardo, del grande monumento equestre di Francesco Sforza, il cui modello in terracotta venne notoriamente distrutto a Milano dagli invasori francesi nel 1499. Fu semplicemente questa corrispondenza storica a portare le due statue alla mostra leonardesca di Milano del 1939, poco dopo esser state riesumate dai depositi del museo vicentino ed esposte nelle relative sale (Biandrà Trecchi, 1939, p. 476). Si tratterebbe degli unici ritratti statuari a piena figura che si conoscano dei due coniugi Sforza: ritratti post mortem, eseguiti evidentemente su effigi preesistenti. Non è però escluso che l’armatura possa ritrarre dal vero un esemplare effettivamente posseduto da Francesco Sforza, vista la somiglianza con alcuni prodotti degli armaioli milanesi Missaglia, che lo stesso duca aveva assunto “ad fabricandum arma pro persona nostra”.

Alla statua del duca è stato posto in rapporto un anonimo disegno al tratto della Wessenberg Galerie di Costanza, raffigurante due studi di figure in armatura (Ferino Pagden, 1986): una è ispirata al pannello con San Michele Arcangelo del Perugino, originariamente parte di un polittico della Certosa di Pavia (ora a Londra, National Gallery), mentre l’altra riprende in controparte la statua di Francesco Sforza. Il foglio dovrebbe essere di poco successivo all’esecuzione della statua, dal momento che il polittico del Perugino venne richiesto nel 1496.

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