Continenza di Scipione

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AutoreAntonio Bellucci
Periodo(Venezia 1654 - Soligo 1726)
SupportoTela, 165 x 221
InventarioA 307
Autore della schedaFabrizio Magani

L'opera appartiene ad una coppia di tele.

Consultare anche Inv. A 309

Il tema della magnanimità e della clemenza del sovrano è il filo rosso che lega le due grandi tele, concepite in pendant da Antonio Bellucci nelle fasi iniziali della sua carriera artistica.

Nel primo dipinto, l’arista raffigura una leggenda, frequente negli scritti degli storici dell’antichità, secondo cui tra i prigionieri di Scipione l’Africano, dopo che egli ebbe conquistato la città di Nuova Cartagine, vi era anche una bellissima fanciulla, già promessa sposa ad un giovane. Scipione, con nobile gesto, mandati a chiamare i suoi familiari, la liberò restituendola al futuro sposo.

Secondo quanto tramandato dagli storici, anche Alessandro Magno dimostrò la stessa benevolenza e umanità trattando con estremo riguardo la madre, la moglie e le figlie del suo rivale Dario, sconfitto dal re macedone durante la battaglia di Isso. La seconda tela, tuttavia, potrebbe anche alludere alla vicenda del generale Coriolano, esortato dai suoi familiari a rinunciare all’assedio della città di Roma, evocata forse dagli antichi edifici che fanno da sfondo alla composizione.

Le scene dipinte da Bellucci si animano grazie alla presenza di numerosi personaggi: “figure costruite con pienezza dei volumi che rinsaldano l’intera costruzione dello spazio, con forme che risplendono della luce diretta e tali da suggerire il senso di profondità nel contrasto con le parti più in ombra” (Magani).

L’artista stende il colore sulla tela ad agili pennellate, conferendo alle sue immagini una luminosità che, nel quadro raffigurante la famiglia di Dario, si fa intensa, giocata su accesi contrasti.

Sono opere di un pittore ancora legato, nel primo dipinto, alla lezione di Pietro Liberi, nel secondo, a quella di Antonio Zanchi.

Descrizione figurativa

Narra la leggenda che Scipione l'Africano, dopo la conquista di Nuova Cartagine, imbattutosi in una bellissima fanciulla e sapendola promessa sposa ad un giovane, mandasse a chiamare i familiari e la restituisse al promesso sposo. In questa tela l'artista coglie l'attimo in cui il conquistatore, il corpo avvolto da un ampio mantello rosso e quasi allungato su una sorta di scranno, restituisce la fanciulla, coperta da un cangiante abito dai riflessi dorati, in piedi alla sua sinistra, allo sposo promesso. Questi ringrazia con il capo chino e le braccia incrociate sul petto. Intorno numerosi personaggi su cui l'artista gioca con la luce in modo da creare contrasto tra luminosità ed ombra.

Descrizione audio

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Cartellini

1954 8232; su carta bianca, a stampa con inchiostro nero 309; su carta bianca, a stampa con inchiostro nero PINACOTECA DI VICENZA/ MUSEI CIVICI/ Inv. A 307/ Antonio Bellucci/ Magnanimità di Scipione/ tela cm 165x221/ Legato Paolina Porto Godi.

Provenienza

legato Paolina Porto Godi, Vicenza 1825-1831

Restauri

2007, Egidio Arlango

Inventari

1826: 51. Camera a mattina sopra il Corso. Scipione che restituisce la sposa a Lucio. Antonio Bellucci. Lire 50; 1831: 60. Stanza detta delle Commissarie. Bellucci Antonio. Scipione che rende la sposa a Lucio. Galleria Porto, n. 4321 del 1826, 51; [post1834]: 20. Belluzzi Antonio. Scipione che rende la sposa a Lucio, 159; 1854: 159. 2.05. 2.50. Antonio Belluzzi. Scipione che rende la sposa a Lucio; [1873]: Sala, parete della porta principale della sala, 44 (43). Antonio Bellucci nato 1654, morto 1726. Scipione che rende la sposa a Lucio; 1873a: c. 1, 44. Antonio Bellucci. Scipione che rende la sposa a Lucio; 1902: c. 12, 57 (51). 51. Scipione che rende la sposa a Lucio. Tela ad olio. Alto 1.70, largo 2.22. Antonio Bellucci. Buono. Buona. Testamento contessa Carolina Porto; 1907: c. 6, 51 (51). Antonio Bellucci, nato a Soligo nel Trevigiano nel 1654 ed ivi morì nel 1726, operò a Vienna a Venezia ed altre città, fu anche intagliatore. Scipione che rende la sposa a Lucio. Tela 1.70x2.22. Testamento contessa Carolina Porto; 1908: 51 (307). Antonio Bellucci. Scipione che rende la sposa a Lucio (tela, 1.70x2.22). Nel 1908 si trova in sala. Nel 1873 si trovava in sala al n. 44. Nel catalogo a stampa del Magrini dell’anno 1855 si trova in sala al n. 13. Nell’inventario di consegna della Pinacoteca al Museo dell’anno 1854 porta il n. 159 colle dimensioni: 2.05x2.50. Pervenne alla Pinacoteca per legato Paolina Porto Godi del 1826 col n. 51; 1910-1912: 307 (313). Numerazione vecchia: 51 numerazione della Commissione d’inchiesta 1908; 57 catalogo 1902; 44 catalogo 1873; 13 Magrini catalogo a stampa 1855; 159 inventario di consegna 1854; 51 n. del legato 1826; 307 catalogo 1912; 307 catalogo 1940; 307 inventario 1950. Provenienza: legato Paolina Porto Godi 1826. Collocazione: salone. Forma e incorniciatura: rettangolare con cornice dorata. Dimensioni: alto m 1.70, largo m 2.22; inventario 1950 1.65x2.21. Materia e colore: tela ad olio. Descrizione: Scipione che rende la sposa a Lucio. Autore: Antonio Bellucci; catalogo 1912 Antonio Bellucci; catalogo 1940 Antonio Bellucci; inventario 1950 Antonio Bellucci.

Descrizione tecnica

L'opera appartiene ad una coppia di tele.

Consultare anche Inv. A 309

Il dipinto illustra l’episodio leggendario tramandato da Tito Livio, in cui Scipione, conquistata la città di Nuova Cartagine, ricevette anche una fanciulla quale bottino di guerra. Egli dimostrò impareggiabile clemenza nel renderla all’innamorato cui era promessa.

Spetta a Giuseppe Maria Pilo l’analisi più approfondita del dipinto, tradizionalmente e giustamente messo in relazione al pendant raffigurante la Famiglia di Dario, anch’esso del Museo civico di Vicenza. Lo studioso tuttavia li distanziava cronologicamente, ipotizzando l’esecuzione del presente esemplare prima dell’altro, ma attorno a una data che non si scosterebbe dal 1691, anno in cui era stato messo in opera il grande telero della chiesa veneziana di San Pietro di Castello da parte di Antonio Bellucci. Le sottili differenze si basavano sull’esito stilistico, che in quest’opera sarebbe debitore della suggestione di Pietro Liberi, mentre nel secondo caso più evidente sarebbe l’influenza del lume contrastato di Antonio Zanchi.

Anche Francesca d’Arcais suggeriva una datazione verso il 1691, ma aggregando le opere al Giuseppe e la moglie di Putifarre del Museo di Castelvecchio di Verona e all’Antioco e Stratonice delle Staatliche Kunstsammlungen di Kassel: per quest’ultimo esemplare è stata invece avanzata una cronologia posteriore, risalente al 1708-1710 (Magani, 1995, pp. 154-155).

Ciò che va senza dubbio confermato è che si tratta effettivamente di opere spettanti al periodo più antico dell’attività di Antonio Bellucci. Come affermò Luigi Lanzi nella Storia pittorica (1809), il punto di riferimento per il maestro veneziano, una volta tornato tra le lagune dalla Dalmazia, fu Antonio Zanchi. Non sappiamo se la vicinanza abbia avuto il carattere di un vero e proprio discepolato, dato che l’artista, per quanto giovane, doveva avere già toccato i vent’anni, ma il paragone con i modi del maestro nativo di Este è ben evidente nel presente esemplare e nel suo pendant. Figure costruite con la pienezza dei volumi che rinsaldano l’intera costruzione dello spazio, con forme che risplendono della luce diretta e tali da suggerire il senso di profondità nel contrasto con le parti più in ombra.

Bellucci in questa fase sembra raccogliere lo spunto coloristico sperimentato verso il 1680 con l’esecuzione del Marte e Venere già in collezione Steffanoni di Bergamo (Magani, 1995, p. 75), certamente mediato dall’influsso di simili concezioni dovute a Pietro Liberi, ma allo stesso tempo indirizzato verso un’intonazione classicheggiante adeguata ai risultati di Bambini e Fumiani, ai quali il veneziano si sarebbe rivolto con maggiore attenzione in anni successivi. Si tratta di un futuro ancora in via di formazione, al quale verrà ad aggiungersi la conoscenza del barocchetto emiliano attraverso la pittura di Carlo Cignani. Questa componente, che sembra avviare Bellucci alla piena maturità dei primi anni novanta, soprattutto con la realizzazione del citato telero di San Pietro di Castello, non appare ancora del tutto determinata nei dipinti vicentini. A ben guardare si tratta piuttosto di una scelta stilistica nemmeno troppo sperimentale rispetto ai conseguimenti venuti a chiarirsi nel corso dell’ultimo decennio del secolo, ma piuttosto mirata al confronto con i pittori principali della stagione barocca veneziana: Liberi e Zanchi, appunto, nei quali era possibile afferrare i propositi di rinnovamento tramite lo schiarimento del timbro cromatico dovuto alla nuova attenzione rivolta all’arte di Paolo Veronese e a un’accademica perfezione del disegno.

Bibliografia

Magrini, 1855, p. 53, n. 13; Ongaro, 1912, p. 103; Fasolo, 1940, p. 175; Pallucchini1, in I capolavori…, 1946, p. 163, cat. 14; Pallucchini2, in I capolavori…, 1946, p. 163, cat. 14; Pilo, 1959, p. 33; Pilo, 1959-1960, pp. 129-130; Barbieri1, 1962, pp. 38-41; Pilo, 1963, p. 131; D’Arcais, 1964, p. 102; Ballarin An., 1982, p. 189; Schiavo, 1989, p. 81; Schiavo2, 1990, p. 343, cat. 6.10a; Mies, 1992, p. 16; Magani, 1994, p. 21; Barbieri, 1995, p. 108; Magani, 1995, pp. 13, 76-77; Pietrogiovanna, in Capolavori…, 1998, p. 107, cat. 46a, ill. p. 106; Villa, in Palazzo Chiericati…, 2004, p. 60.

Esposizioni

Venezia1, 1946, p. 163, cat. 14; Vicenza, 1990, p. 343, cat. 6.10a; Kiev, 1998, p. 107, cat. 46a, ill. p. 106.

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